Articoli

PERCORSI

TEMPO DI LETTURA: 5 MIN

TARGET: VIAGGIATORI SOLITARI

C’è una bella novità in casa degli amici stretti di Atmen. Di quelle che riempiono il cuore di gioia, tanto da volerla urlare al mondo. 
Ma non capivo come mai, insieme alla gioia nel mio cuore ci fosse nei giorni recentemente passati anche un velo di malinconia.
Qualche ora fa, davanti ad un enorme tramonto invernale sulla campagna, con la mente vuota ed il cellulare spento, ho compreso.


Si è chiusa una fase. Con soddisfazione ed un lavoro ben compiuto, la parola fine chiude un altro capitolo. E ne rimane il lutto da elaborare.


Quando i cicli si chiudono, inevitabilmente si rimane sospesi in un limbo temporaneo dove è difficile accogliere, anche se si è compreso, e dove si devono riunire tutte le forze per oltrepassare una dolce stanchezza di fine percorso, rimboccarsi le maniche e ricominciare a viaggiare.
Non si è tristi, forse solo un pochino. Ma non tristi in senso opprimente, solo malinconici perché qualcosa di bellissimo è finito ed è ora di cominciare una nuova sfida. Da sentirsi parte di un tutto, si torna ad essere soli. O perlomeno a percepirlo in maniera più consapevole.
Tutto questo, e ne parlo con un sorriso stampato sulla faccia, mi porta a realizzare che ognuno di noi sta percorrendo una strada. La sua. E la percorre da solo.


Ognuno di noi ne percorre molte di strade, a dire la verità, perché ognuna di queste ha un imbocco e una destinazione. E quando una finisce, ne prendiamo subito un’altra. 


Da piccoli esseri umani relativamente pensanti e magicamente creativi non ci è dato sapere dove queste strade portino, né in che condizioni o con che mezzi saremo in grado di percorrerle, né tantomeno fino a quando potremo continuare a farlo. Non possiamo fare altro che procedere.
Ecco perché ci poniamo così tante domande, o perché ci mettiamo in cammino senza sapere di farlo; ecco perché abbiamo fretta di arrivare, tanta da non accorgerci dove siamo ora o che stiamo mettendo un piede dietro l’altro. Saranno ovvietà queste, ma lo Yoga ci dice che invece dovremmo essere vivi nel momento presente, consapevoli dell’attimo dopo l’attimo, inebriati dalla gioia di poter vivere ora e qui. Ricalchiamo con il corpo antiche forme di antichi Maestri per imparare a stare fermi, per fermarci un istante, per capire che questo istante, proprio questo in cui io scrivo e tu leggi, è fondamentale, e perderlo sarebbe un peccato.
Ma nessuno ci racconta che un attimo insieme ad un altro attimo fanno un percorso, e che il percorso alla fine serve a qualcosa, serve alla nostra anima, serve al nostro cuore, serve ad insegnarci qualcosa. Questo è un pò meno ovvio.
La cosa che frega è che strada facendo gli attimi diventano volti, sorrisi, sensazioni, emozioni, colori, attaccamento. Persone. Luoghi.
Quando sei lì che te la godi, quando finalmente hai scalato l’ennesimo gradone, quando girovagare senza meta tra le tue Vritti sembra un pò più semplice, è lì che finalmente fluttui nell’energia nuova che si smuove dopo tanto….e puff! la nuvoletta svanisce, ti innaffia sì di serenità mista a soddisfazione, mista a pura bellezza, mista a ordine ed incastri perfetti, e tu balli, e tu ridi,  ma tu rimani… ancora una volta……..solo. 
Tutto quello che hai investito, tutto quello che hai amato e odiato, tutto quello per cui ti sei battuto, tutte le risposte che non sono mai arrivate, è tutto lì, davanti ai tuoi occhi, mentre ti svegli improvvisamente e capisci che tutto aveva un senso e tutto ha concorso alla conquista del più o meno consapevole scopo raggiunto.
Hai finito! Un ciclo si è concluso con successo. Hai dato il meglio che potevi, ti sei pure divertito. E’ andata bene! Ma è finito. Andato. Game over.
E’ come il 1 di gennaio: dopo aver festeggiato per un mese, atteso il Natale e le sue luci, festeggiato a lungo nella notte più lunga dell’anno, la festa è finita. E tu ancora senti l’eco della musica e senti il brio girarti nelle vene, ma scende piano l’adrenalina, scende un velo di malinconia e di stanchezza mentre ti accasci lentamente sulla prima poltrona che trovi lì accanto.

Lasciare. Andare.

Lasciare andare. 

Strano come un piccolo puntino sia in grado di esprimere verità così corpose e diverse.


Ecco perché i cicli si chiudono.
Ecco perché noi siamo in cammino.
Ecco perché facciamo fatica.
Ecco perché è il percorso ad avere un senso, non tanto la meta.
La meta svanisce in “un attimo “. Il percorso è lì per insegnarti esattamente ciò di cui hai bisogno.
Diventarne consapevole, riconoscere che i tuoi passi si susseguono, valevoli singolarmente e uno dopo l’altro, ti prepara al risultato finale. E a capire che come lo hai raggiunto, dovrai lasciarlo andare. 

Pensaci la prossima volta che da in piedi scendi in Uttanasana a toccarti le punte dei piedi.
La magia è tutta lì. E tu, pur solo nel tuo unico ed inimitabile modo di scendere, ne fai parte.

Namastè.

LUCI E OMBRE

TEMPO DI LETTURA: 4 min 30 sec

TARGET: Guerrieri della Luce

Ci sono giorni e domande in cui non sembra esserci spiegazione.
Si cade, ci si rialza, si riparte, talvolta non si può fare altro che aspettare e rimanere fermi. Tutte le circostanze incomprensibili rendono più difficile l’accettazione, lasciano l’amaro in bocca, e solcano il viso con qualche ruga in più.
Nella vita si cambia, si attraversano varie fasi, e tendenzialmente é sempre il lato più in ombra delle vicende a lasciare di più il segno e a dirigere il nostro cammino. Diventiamo altre persone, maturiamo oppure iniziamo a scegliere, impariamo a conoscere le nostre reazioni. Il tutto non senza quella sensazione di malinconia che il lasciare andare il tempo passato porta inevitabilmente con sé.


É per questo che pratichiamo. É per questo che chi pratica yoga da un po’ più di tempo non può più farne a meno. 
Imparare a gestire le proprie emozioni, iniziare ad aprire gli occhi sulle VRTTI e sui meccanismi inconsci dell’Io, scegliere di cambiare le reazioni cresciute con noi senza che sapessimo di poterle gestire, altro non sono che tutti aspetti del coltivare la pazienza. 
Ho sentito spesso dire che l’essere umano deve trovare conforto in qualche modo laddove non ha risposte, e forse é davvero così. Non contesto a priori questo tipo di reazione, in fondo della nostra “umanità” ne siamo tutti più o meno consci. Sappiamo di essere deboli verso il piacere, verso i bisogni, verso il cambiamento, soprattutto quello netto ed improvviso. Avvertiamo la costante necessità di fare e disfare, di avere stabilità e poi di sgretolarla per cercare di nuovo conforto. 
Ma quello che non credo esattamente necessario é il dover per forza sapere. Sapere il perché, sapere da dove, sapere il come. Le più grandi verità, che esistono di certo e sono lì da qualche parte, magari non sono a noi destinate, o magari non lo sono in quel momento, quando forse non potremmo comprenderle fino in fondo. Questo non significa non ci sia una risposta, una spiegazione valida. Forse però dobbiamo apprenderla andandoci piano, avvicinandoci ad essa con cautela, tempo al tempo. 
Sono fermamente convinta che dietro chiunque o qualunque cosa arrivi nella nostra vita ci sia un perché, un insegnamento, sia esso una persona, un animale, un dono o un’esperienza non programmata. Perfino il rifiuto fa parte di tutta quella schiera di amabili emozioni che un essere umano deve ricevere con un perché e che dovrebbe imparare a saper gestire. 
Il fatto é che ciò che arriva magari non si ferma. O non resta con noi il tempo che noi riteniamo sufficiente per averne ancora e abbastanza.
Il fatto é che delle cose ritenute “belle” non se ne avrebbe mai abbastanza. 
Una buona compagnia, un bicchiere pieno nel tramonto, la parola giusta in un bivacco di alta quota, uno sguardo, un abbaio quando torni a casa, una espressione particolare, una carezza. Tutte cose riconducibili alla faccia luminosa della medaglia.
Tutte cose che non vorremmo far finire mai e che quando finiscono, come deve avvenire per natura, vorremmo rivivere. E se torniamo in quel luogo, se rifacciamo la stessa cosa, magari un po’ più vecchi, magari solo diversi, il gusto sará sempre e comunque differente. 


Questo é il senso del vivere il presente. Sia esso luminoso come la metà della medaglia al sole, sia esso in ombra. 
L’ombra a volte significa solo “l’ altra parte”. L’ombra a volte porta ristoro dove c’è troppo caldo, o dona un porto calmo laddove il mare era agitato.
Qualunque sia il suo impatto sulla nostra anima, l’ombra passa e si dilegua. O cambia in luce, anche se forse bisogna aspettare un po’. 
Pratichiamo per quello. Per riconoscere che l’ombra passa e scivola via, esattamente come la luce. Che nulla permane, sia esso “positivo” o “negativo”. Che tutto quello che arriva, giunge a noi per insegnarci qualcosa anche se non lo capiamo, e che dobbiamo avere infinita pazienza…
Pratichiamo per diventare forti e reggere il carico, per diventare consapevoli e quindi tolleranti, per riuscire a mantenere un equilibrio, va bene anche instabile, quando lo scossone arriva.
Siamo umani, siamo creature delicate e confuse, siamo intelligenti ma non abbastanza consapevoli.
E siamo parte di ogni cosa. 
Cerchiamo di avere pazienza con noi stessi, godere di ogni istante, imparare da esso, vivere le emozioni per quello che sono: il nostro fardello da riordinare e usare come lasciapassare.
E cerchiamo di amare. Amare moltissimo, dicendolo, dimostrandolo, anche se distanti, anche se soli, anche se impotenti: così quando l’oggetto del nostro amore avrà svolto il ruolo per cui era arrivato nella nostra vita, sapremo di aver fatto tutto quello che era in nostro potere per dare il nostro amore e potremo, non senza fatica, lasciarlo andare verso la luce.

A Fabi e Bonnie. 

SAVASANA DOCET

TEMPO DI LETTURA: 5 min

TARGET: frettolosi no- perdi tempo



Una volta passando per un mercato rionale mi imbattei in una t-shirt con la scritta: “I’m only here for Savasana”. La ricordo ancora e piuttosto spesso perché risi talmente forte pur essendo lunedì mattina che ancora sorrido al sol pensiero.

Ancora non l’ho messo in atto, ma mi sono sempre riproposta di farmi confezionare una maglietta uguale e presentarmi in sala ai miei allievi o maestri così.

non l’ho messo in atto, ma mi sono sempre riproposta di farmi confezionare una maglietta uguale e presentarmi in sala ai miei allievi o maestri così.

Savasana è definita come l’ultima postura della serie.
Il momento in cui tutte le fatiche vengono ripagate dal ristoro, in cui ci si può abbandonare esausti alla accogliente Madre Terra che avrà cura di te e del tuo corpo stanco, mentre la tua unica preoccupazione sarà quella di ascoltare il tuo respiro. Bella storia.
Nella mia breve carriera di insegnante yoga (se così posso definirmi) e nella mia più lunga esperienza quotidiana di praticante, ho visto vivere e ho vissuto io stessa Savasana in molte versioni differenti, tanto da voler dedicare a questo importante momento della pratica qualche parola più approfondita.
Le pratiche dinamiche di Yoga, come l’Ashtanga o il Vinyasa flow, sono tese a detossinare il corpo facendolo sudare, a renderlo più forte, resistente e nel tempo abile, coltivando la pazienza e mitigando l’ego con sequenze intense e a volte provanti. Savasana arriva alla fine di queste serie dandoti la possibilità di “abbandonare” il corpo fisico, per raccogliere le sensazioni della pratica appena conclusa e ritirarti nella quiete interiore riscoperta e riattivata.
Regola vuole che ci si concentri sul proprio naturale respiro, senza perdere l’attenzione, per allontanare pensieri o turbamenti della mente, già preparata  e “pulita” dopo la pratica fisica. Attraverso il respiro potresti con l’andar del tempo ricevere sensazioni tali da essere traducibili in quelle che noi chiamiamo risposte, i cui quesiti di certo conosceremo essendo forse i nostri costanti compagni di viaggio.
Ma stanchezza o mancanza di allenamento mentale possono talvolta farci cadere nell’addormentamento o nel consueto turbinio di pensieri sconclusionati o preoccupazioni radicate. Entrambi meccanismi della mente per fuggire da una situazione ritenuta difficile o quantomeno inconsueta.

Noi esseri frenetici non siamo abituati a stare fermi immobili, e spesso nemmeno a riuscire a concentrarci su una cosa soltanto alla volta. Multitasking o no, la nostra mente per rimanere ferma e stabile necessita di allenamento, costante ed impegnativo. Rimanere fermi laddove avremmo un sacco di cose da fare e pochissimo tempo per portarle tutte a termine, ci incute un certo timore, quasi fosse una perdita di tempo, di opportunità. L’ansia sale e magari diventa un senso di colpa. “Perché devo rimanere fermo qui? In fondo lo yoga l’ho fatto, per oggi la mia oretta di allenamento l’ho messa all’attivo, posso alzarmi? Devo correre a casa a fare da mangiare….”
Alzi la mano chi almeno una volta non si è trovato in tale situazione….:-)

Ma Savasana è ben più del classico relax che conclude come da manuale ogni lezione di fitness.
Lo yoga stesso, dinamico o più “gentle”, per quanto inteso dai più come un perfetto allenamento funzionale, è in realtà una questione ben più complessa, tesa ad allenarti la vita, più che il corpo.

Savasana andrebbe mantenuto almeno una metà del tempo della durata della tua pratica di Yogasana.  In media dai quindici minuti alla buona mezz’ora. 
Il che significa che per mezz’ora non dovresti né vagare tra i tuoi pensieri, né muoverti, né tantomeno addormentarti. Non è facile nemmeno a dirsi….
Ma in quel tempo che ti regali, anche se ti sembra di non fare nulla, ed in realtà non sei tu a doverlo fare, si riassume tutto il significato di come hai vissuto le tue giornate, di cosa ancora hai bisogno, e di come sei tu e ti rapporti ai fattori esterni.


Prova a rallentare e potresti essere felice. Dovrebbero scrivere questo nella spiegazione di questa postura.
O ancora “provare per credere”. 

Nulla vieta di alzarsi e andare, in fondo siamo tutti figli della stessa società, e poi, a dirla tutta, chi ha davvero tutto il tempo di fare gli esercizi di respirazione come si deve, meditare, praticare le asana, restare in savasana una mezz’oretta, farsi il massaggio con l’olio caldo prima della pratica, e poi con estrema calma iniziare la giornata?!? Vivremmo di amore e aria… e di profonda flessibilità… :-))))
Personalmente mi alzo presto la mattina, per dedicarmi una pratica di almeno un’ora, qualche coccola al corpo, una colazione nel silenzio della giornata che deve ancora svegliarsi, e qualche gentile pensiero per permettermi di non strapazzarmi troppo tra un impegno ed il successivo.
Ma Savasana nella mia pratica non manca mai. E più è duratura e più riesco a sentire i benefici sul corpo, che risulta più leggero e ricaricato, più riesco a spegnere la mente rendendola poi più performante, più posso dissolvere la stanchezza e permettermi di fare di più in meno tempo. 
È una sorta di abbandono consapevole, di scegliere di darsi ora del tempo per rimanere sdraiata per poi rendere meglio al lavoro o per strada. E’ anche solo un momento di auto aiuto quando il corpo richiede una pausa e la mente è affaticata.
Rimanere in Savasana non è semplice, ci vuole fiducia verso chi ti guida, pazienza con se stessi e soprattutto la capacità di chiudere la porta in faccia a tutto ciò che sta fuori. Consci del fatto che non sarà per sempre, ma solo per ora. 
Significa dedicarsi del tempo, anche se poco, per poi darne indietro. Tutti noi abbiamo il nostro sacchetto di energie, chi più e chi meno. A volte non ce ne accorgiamo, ma diamo così tanto o ci lasciamo “rubare” il nostro nutrimento senza nemmeno saperlo. Così rimaniamo affaticati, privi di energie, scontenti, “affamati”. Possiamo andare a fare una pennichella sul divano, possiamo estraniarci guardando la tv, o proviamo ad esempio a stare in Viparita Karani dieci minuti. 
Gli inglesi hanno una espressione che rende perfettamente l’idea: “it’s up to you”.
Bene, sta a te. Vuoi rilassarti o ricaricarti? Preferisci lasciare andare a domani o recuperare il controllo delle tue facoltà ed energie?

Stenditi, spegni il cellulare, ascolta il respiro: nessuna pretesa, nessun giudizio, nessuna aspettativa, solo tu e la tua innata quiete interiore che per quanto nascosta in fondo, non ti abbandona mai.

“E stai tranquillo, nessun timore: ” al massimo” potresti scoprire davvero chi sei…

Om shanti.

LASCIARE ANDARE

Tempo di lettura: 5 min

Target: ansiosi indagatori del futuro

” La vita è una serie di cambiamenti spontanei e naturali. Non opporre loro resistenza, questo crea solo dispiacere. Lascia che la realtà sia realtà. Lascia che le cose fluiscano naturalmente in avanti in qualsiasi modo loro piaccia.” (Lao Tzu).

Interessante quanto angosciante prospettiva. Lavoriamo una vita per avere fama, denaro, prestigio ma non ci sentiamo mai realmente appagati se non in pochi, fuggevoli istanti. Corriamo imperterriti dietro a qualcosa, investendo le nostre forze ed i nostri giorni per afferrarla, e quando, e se, la raggiungiamo, ci ritroviamo invecchiati tra le rughe dell’incompiutezza, pronti a ricominciare daccapo, inseguendo la preda successiva.

Come acqua tra le dita, la vita scorre imperterrita mentre tentiamo cocciutamente di afferrarla.
E più le corriamo dietro, meno ci accorgiamo che corre più forte, lasciando pochi , sfocati segni a rappresentare i frammenti nella nostra memoria già satura.
Osho, col suo sorriso sornione, in poche semplici parole, coglie la questione perfettamente:

“… ogni tanto tenta di vivere e basta. Non lottare e non forzare la vita, osserva in silenzio ciò che accade.“

Ti è mai venuto in mente che forse, ma solo forse, se continui a desiderare quella casa, quella persona, quell’oggetto, senza mai riuscire ad averlo davvero tra le mani come il “tesssoro” di Gollum, è forse perché quella non è “ l’ immagine” a te destinata? Forse quello in cui ci intestardiamo emozionalmente, che siamo convinti leccherà le nostre ferite, non è la cura per il nostro male. A noi serve qualcos’altro, che forse nemmeno conosciamo o immaginiamo possa servirci. 

Patanjali lo chiama Isvara Pranidhanat, il saper abbandonarsi, arrendersi con fiducia, sorridere all’ ignoto, invece di lasciarcene spaventare.

L’arte del saper lasciare andare tuttavia è per pochi eletti. “ Non continuare a desiderare quello che vogliamo ottenere e non rimanere legati a quello che abbiamo o a quello che che pensiamo di dover avere”, come dice Jon Kabat Zinn, non fa parte dell’indole umana, e se si ha la fortuna di scoprire questa proscrizione, va coltivata con gentilezza e pazienza, alla ricerca del Sè. 

Fermarsi. Cosi. All’improvviso. Senza alcuna mediazione ragionata.
Improvvisamente decidi che smetti. Smetti di correre, smetti di inseguire, smetti di volere per forza. Ma non smetti di cercare. Non smetti di capire, continui a voltare curiosamente la pagine del libro, solamente con un ascolto diverso. Con la curiosità di conoscere dove la tua fiducia nell’ignoto ti può portare. 
Provi a prendere le distanze, magari da ciò che ti fa soffrire, provi a non attaccarti con le unghie e i denti alle immagini che la mente crea e ti mostra come imprescindibili. Crei spazio, prendi distanza dalle aspettative altrui ed impari a dire di no.

Semplice. Talmente semplice da sembrare infattibile.
Ma, se si prende coraggio e si inizia, è anche estremamente liberatorio.
Dentro di noi sappiamo dove vogliamo vivere. Dentro di noi sappiamo di cosa abbiamo bisogno. ” Saperlo è facile, è dirlo ad alta voce che è difficile” recitava Robert Redford ne “ L’ uomo che sussurrava ai cavalli”.
Io trovo sia complicato anche saperlo. Siamo talmente soffocati sotto enormi materassi che da anni condizionano la nostra inconsapevole esistenza, da non ricordarci nemmeno più come ci chiamiamo. Pensiamo si faccia così, che ci si debba comportare colà, che le scelte a cui giungiamo, dovute ad altri o ad altro, siano farina del nostro sacco.
La nostra vita è un dono immenso, ma è solo NOSTRO, ed è ora. Mentre riempiamo l’armadio di vestiti che non sappiamo di aver comprato e che probabilmente nemmeno ci piacciono.

Vairagya è un termine dei Sutra di Patanjali (YS 1.12) un pò duro, ma che ripete questo concetto. 
Significa distacco, indifferenza, lasciar stare, lasciar andare. Già da solo sarebbe sufficiente a tenerti sveglio qualche notte a pensare. Ma se aggiungiamo poi che presuppone il “ non attaccamento” a ciò che hai , la questione si complica ulteriormente.

Ho capito che il distacco serve a prendere lo spazio necessario a fare ordine mentale. 
E che l’ indifferenza non ha accezione negativa, ma aiuta a lasciar fluire più velocemente le afflizioni.
Ho capito che lasciar stare a volte serve a non compiere passi falsi, e a non dire quella parola di troppo di cui magari ti pentiresti. E che imparare a lasciare andare serve a te, per non farti opprimere dalle ombre dell’esterno mal filtrate dai nostri sensi.
Non possiamo scegliere ciò che ci capita, ma possiamo scegliere come reagire ad esso. E lasciare andare più in fretta le afflizioni che si riflettono e si proiettano su di noi dall’esterno all’interno, ma che di noi non fanno davvero parte, potrebbe essere un grande aiuto ad avere maggiore rispetto di noi stessi. 
È come se avessimo una moltitudine di sacchi neri della spazzatura da buttare via. Più facciamo pulizia e spazio e più quello che ci serve davvero diventa visibile.
Marie Kondo sarebbe fiera di me…
E’ quando la via è sgombra, che ciò che è a noi destinato arriva.

“Ciò a cui resisti, persiste”. (Jung)

L’ho imparato a suon di testate. 
Lo condivido… non sia mai possa essere utile a qualcuno che riuscirà a capirlo prima di farsi troppi bernoccoli.

Om shanti.